
Nella cultura popolare argentina il modo di dire «TOCO Y ME VOY» conserva intrinseco l’innato talento di sapersi adeguare con elasticità al divenire del tempo, diventandone per certi versi la più anarchica e sfuggente nèmesi. Il «dai e vai» fugge dal legiferare delle lancette rifugiandosi nella durata di un tango, oppure di una canzone rock. E perfino in una romantica seppur effimera passione, come decise di arrangiarlo la famosa attrice Moria Casán al sorgere di questo millennio. Per Luis Pentrelli invece, il vero pioniere di questa nozione, non si trattava di donne da sedurre e conquistare o di chitarre da strimpellare. E anzi. A dirla tutta non ne diluiva più di tanto il concetto: né in minuti, né in ore. Bastavano pochi, pochissimi secondi. Giusto il tempo di ricevere il pallone e scaricarlo sul compagno di squadra più vicino, e libero possibilmente, per poi riproporsi in ricezione sulla corsa. Nella filosofia di Pentrelli, raccontata poi su «El Gráfico» dalla finissima penna di Osvaldo Ardizzone intorno alla prima metà degli anni ’60, dopo il ritorno di Luis in Argentina, il ricevere e il dare – e viceversa – erano due componenti consequenziali e senz’ombra di dubbio inseparabili. Un sincero invito a ricercare l’essenziale, nel bel mezzo di un’epoca in cui il fútbol argentino veniva dilaniato dalle sue stesse idiosincrasie ritmiche e da diverbi di spiccia retorica in merito alle questioni tattiche. Il postulato tralasciatoci in eredità da un uomo semplice. Che semplice, per puro riflesso, lo era anche nel suo modo di intendere il gioco.