Il passaggio forse più complicato della mia carriera è stato il salto alla Juventus da San Benedetto. Avevo 16 anni, ma vivevo già in appartamento, avevo il mio stipendio: in una parola, ero autonomo.
Arrivato a Torino, dopo il ritiro a Villar Perosa, guadagnavo già bene e pensavo di trovare un appartamento. Invece mi dissero che dovevo andare in convitto con gli altri ragazzi: “tu sei un ragazzo, continua ad essere un ragazzo”. Mi cadde il mondo addosso: mi allenavo un paio di volte a settimana con la prima squadra, ma dovetti tornare a fare la vita delle giovanili, di un ragazzo normale tra campo di calcio e libri di studio.
Quei due anni li ho vissuti molto male, sono stati pessimi. Ma col senno di poi, riconosco sono stati cruciali per la mia formazione: mi hanno fatto tornare con i piedi per terra. Vedete, quando si è giovani bisogna sempre trovare il giusto equilibrio, altrimenti si rischia di perdersi, come è successo a tanti talenti mai sbocciati: perdersi per mancanza di equilibrio, per una questione di testa. E paradossalmente, questo equilibrio serve anche alla fine, non solo all’inizio: quando smetti di giocare devi abituarti ad aspettare il tuo turno, torni alla vita normale. Perché quando giochi e sei bravo nessuno ti dice “aspetta due minuti”, mentre quando torni nel mondo reale cominci a bussare alla porte, e ad aspettare.
Rimanere umili, giocare per la maglia, non per i soldi, imparare a gestirsi. Sembrano frasi fatte legate a un’etica, e invece sono il salvagente per un giocatore. Ed è questo che tante volte vorrei dire ai più giovani, quando vedo comportamenti facili da tenere quando li vivi, ma so che nel futuro si ritorceranno contro a quel ragazzino che oggi si sente così importante.
Ma torniamo a me: in questa consapevolezza, di essere solo all’inizio di un percorso, era fondamentale anche la possibilità di giocare con e contro i grandi, con quelli di Serie A, in un campionato Riserve dove si cresceva come giocatori e come uomini.
Nel Campionato Primavera attuale i ragazzi di 18 o 19 anni imparano poco: quando invece c’era la possibilità di giocare con i titolari della prima squadra che avevano bisogno di recuperare si acquisiva esperienza, maturità: era di un’utilità pazzesca.
Quando si è giovani bisogna cogliere le vere possibilità, come quella magari di andare a giocare anche in una categoria inferiore, come successe a me quando scesi in Serie B: mi è servito tantissimo. Le grandi carriere devono iniziare così, perché la consapevolezza del lavoro, che nulla è dovuto, è fondamentale quando ci si allontana dal campo.
Io non ho sentito molto il passaggio da calciatore ad ex, anche per questi motivi, per questa formazione che mi è stata data. Ho indossato gli scarpini fino a 39 anni e appena smesso non mi sono fermato, non ho sperperato nulla, ma sono diventato subito dirigente, alla Triestina, rimanendo nell’ambiente. Da lì sono diventato Osservatore, poi Team Manager qui a Udine per quattro anni con la Famiglia Pozzo, e dopo ho avuto la fortuna di andare a lavorare per Sky, dove sono stato più di 10 anni a fare telecronache, imparando sempre cose nuove anche da ragazzi giovani e molto bravi. Nel frattempo ho fatto il corso per diventare Direttore Sportivo e ho preso il patentino da Allenatore Uefa 1, perché per fare bene la seconda voce sono indispensabili conoscenze tattiche, bisogna sapere come mettere in campo una squadra.
Non è facile diventare calciatori e non è facile smettere di esserlo, ma per entrambe le cose è decisivo tenere i piedi per terra e la testa sulle spalle, e lo si impara da giovani.
Franco Causio
Franco Causio